L'altro punto di vista. Quando in terapia viene la "famiglia anoressica"

Dipendenza dai familiari e bassa stima di sé: gli agenti “scatenanti” del comportamento anoressico. Durante la mia esperienza di psicoterapeuta mi sono resa conto di quanto dolore ci sia nelle famiglie anoressiche, dove un “demone”, il cibo, ha dichiarato loro guerra prendendo di mira il “soldato” più vulnerabile del loro “esercito”. Prima di entrare nel merito spiegherò in breve cosa sia l’anoressia mentale. Essa, appartiene alla famiglia dei disturbi del comportamento alimentare,  rappresenta una sindrome psicosomatica caratterizzata da sintomi di natura sia fisica che psicologica. I sintomi fisici consistono in un progressivo dimagrimento che supera il 25% almeno del peso corporeo “normale” e una o più delle seguenti condizioni: amenorrea (=interruzione del ciclo mestruale), iperattività e ipotermia (= abbassamento della temperatura corporea). La sintomatologia psicologica comprende il desiderio di dimagrire, la paura di acquistare peso, la negazione della fame, una distorta immagine corporea e uno sforzo di controllo. Colpisce per lo più il sesso femminile nel periodo preadolescenziale o adolescenziale: giovani ragazze che, per raggiungere il peso “perfetto”, diminuiscono volontariamente l’assunzione di cibo fino a ridursi a “vivere d’aria”e che, per mantenere lo stato di magrezza ottenuto ricorrono spesso a sistematici sotterfugi (vomito autoindotto, abuso di lassativi o diuretici o sport eccessivo), insieme alla riduzione di peso si assiste anche alla amenorrea e problemi dentali dovuto al vomito indotto. La ragazza anoressica soffre di una profonda insoddisfazione riguardo a se stessa e alla propria vita; insoddisfazione che, mediante un meccanismo di spostamento, riversa su quell’unico spazio che è sicura di poter controllare, disciplinare, dominare: il suo corpo. A guidarla è la sua sconfortante mancanza di autostima. Nel profondo è convinta di avere dentro di sé qualcosa di imbarazzante e malvagio che le preclude l’accesso alle “cose belle della vita”; di essere inadeguata, mediocre, inferiore e disprezzata dagli altri. Avverte che la gente intorno a lei la guarda dall’alto in basso con disapprovazione, pronta a criticarla appena possibile. Tutti i suoi sforzi per il raggiungimento del  corpo perfetto sono diretti a celare la pecca fatale della sua fondamentale inadeguatezza. Ed è qui che entra in gioco la famiglia. La scarsa autostima della giovane anoressica trae origine, infatti, da un legame opprimente, troppo coinvolgente, carente della necessaria separazione e differenziazione, con i genitori e con la famiglia in genere. Superficialmente le relazioni sembrano buone; ad approfondirne la conoscenza, però, si scopre che l’apparente armonia che in casa regna è ottenuta soltanto grazie ad un’eccessiva compiacenza della ragazza. Ella sente che, per ottenere l’approvazione di chi le sta accanto, deve sempre assecondarne le richieste, anche quando queste sono in netto contrasto con le sue aspirazioni e le sue necessità. Si mostra seria, responsabile, servizievole, studiosa; la classica “brava ragazza” insomma. I suoi pensieri e i suoi progetti sono continuamente influenzati da domande tipo: «Come la prenderanno gli altri?» o «Cosa si aspettano io faccia?». Ha bisogno che i suoi sentimenti siano confermati da altre persone per poter sapere che li sta provando. Fa esperienza di se stessa solo come riflesso di ciò che esse vedono in lei, continuando a sentirsi “vuota”, un “niente”. Diventa una marionetta nelle mani degli altri. Se i suoi bisogni passano sempre in secondo piano, come può sentirsi amata, compresa, desiderata? E come può acquistare fiducia in se stessa? Dipendenza dai familiari e bassa stima di sé: ecco, dunque, gli agenti “scatenanti” del comportamento anoressico. Agenti che la psicoterapia della famiglia si propone di “sconfiggere” lavorando alla modificazione delle interazioni tra paziente anoressica e familiari. In casi del genere è necessario, in effetti, ristabilire quel normale processo di individuazione che dovrebbe rendere “emancipato” ogni adolescente; un processo qui completamente soppiantato dall’ “avvinghiante” relazione stabilitasi tra il soggetto “in via di sviluppo” e la sua famiglia. Il fatto è che se questi rimangono “invischiati” in un legame eccessivamente stretto, la paziente non avrà mai la possibilità di sviluppare quelle capacità necessarie a condurre una vita autonoma, da individuo che ha rispetto di sé, che riconosce il proprio valore, che è capace di godere e di autogestirsi. Non avrà mai, cioè, l’opportunità di diventare adulto! Le si insegni allora a fare le cose per piacere a se stessa e non per accontentare i suoi cari. Lo scopo ultimo della terapia famigliare è riuscire a  convincere la ragazza del suo diritto a difendere il proprio spazio psicologico, a rendere espliciti i propri desideri e sentimenti e a vivere una vita che sia finalmente reale.


Dott.ssa Elena Lorenzini – Psicoterapeuta sistemico relazionale ]]>

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