Amiatanews: Siena 13/11/2020
Le pandemie del passato ci insegnano che le epidemie, sono sempre accompagnate da un atteggiamento di ostracismo.
Di Elena Lorenzini
Ogni lavoro dà la possibilità a chi lo svolge di avere il polso della situazione di uno specifico ambito. Ad esempio, chi è impiegato negli ospedali, dal numero dei ricoveri, comprende come si sta evolvendo la pandemia, chi ha un ristorante nota come sono cambiate le abitudini delle persone, nel mio caso da psicoterapeuta ascoltando le storie, dei genitori che seguo, sto cogliendo sempre più spesso, un effetto secondario del COVID che crea molto dolore e sofferenza in chi lo vive.
Mi riferisco allo stigma di essere o essere stato positivo. Ho ascoltato alcuni esempi di questo “effetto emarginazione da COVID”. Il primo caso, riguarda una persona impiegata in un negozio di vendita al dettaglio alla quale è stato chiesto di poter cambiare mansione e spostarsi dalla cassa al magazzino fino a quando i clienti “non si dimenticheranno che è stata positiva”; il secondo esempio riguarda, il proprietario di un negozio di generi alimentari, che ha dovuto attaccare sulla porta di ingresso, gli attestati di negatività fornito dalla ASL e condividere tale informazione, attraverso i vari social per invitare le persone, a non avere paura di fare acquisti nel suo negozio. Infine, il terzo caso, di una bambina che non voleva più stare vicina alla compagna di classe, perché suo padre era risultato positivo al COVID. Di questi esempi di emarginazione e bullismo, in tempo di pandemia purtroppo, ne sentiamo tantissimi e sono sempre più frequenti.
Le pandemie del passato ci insegnano che le epidemie, sono sempre accompagnate da questo atteggiamento di ostracismo. Ad esempio la lebbra, il colera e il più recente AIDS, ci dimostrano come sono devastanti gli effetti dell’emarginazione e del marchio di infamia. Per dare una misura del fenomeno, basta notare che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) chiama il “fardello nascosto” delle malattie, gli effetti di emarginazione dovuti allo stigma.
Questa abitudine di stigmatizzare le persone che hanno avuto un esito di caso accertato, crea a cascata altre conseguenze. Le prime, direttamente in colui che si trova ad essere positivo, il quale non si preoccupa, in via primaria di come si sente e del suo stato fisico, ma principalmente, di non far sapere a nessuno o a meno persone possibile, il proprio stato di contagiato. Oltre a questo, egli viene pervaso dal senso di colpa per essersi ammalato, magari nella convinzione di non aver osservato con sufficiente scrupolo le avvertenze, come se contrarre una malattia fosse una colpa.
Dalla parte invece chi stigmatizza, c’è l’idea di essere immuni e di amplificare le paure del contagio, mettendo in atto comportamenti fuori luogo e dannosi a livello psicologico, come quello, citato fra gli esempi, di far evitare ai figli di parlare con altri bambini che sono negativi e che hanno avuto come unica colpa quella di aver avuto un genitore positivo.
Purtroppo sappiamo che i pregiudizi sono duri a morire, basti pensare a quanto avvenuto con l’AIDS. Infatti, ci sono voluti film come Philadelphia, canzoni e numerose campagne informative, impostate come pubblicità progresso, per far parlare di una malattia che la gente pensava appartenesse esclusivamente a due categorie, (gli omosessuali ed i tossicodipendenti) e a distruggere con fatica gli stereotipi e le paure legate alla sieropositiva da HIV.
Sono stati fatti molti studi sulla stigmatizzazione e sulla emarginazione da malattie epidemiche. Una ricerca, abbastanza recente in tema di AIDS ad esempio, evidenziava come chi contraeva il virus dell’HIV, subisse offese, fosse allontanato dal lavoro e dalle persone care.
Inoltre, i soggetti sieropositivi che percepivano maggiormente la condanna sociale, tendevano a rimandare le cure fino a quando le loro condizioni non diventavano estremamente gravi. Questo schema comportamentale, si sta riscontrando anche per alcuni soggetti portatori di sintomi riconducibili anche al COVID. Le persone aspettano di vedere come si evolve lo stato di salute, prima di avvisare il proprio medico di base, per paura di farsi il tampone, di risultare positivo e di subire tutte le conseguenze sociali ( esclusione, denigrazione etc).
La dottoressa Nyblade, che studia da anni l’AIDS e l’aspetto dello stigma conseguente alla contrazione di tale malattia, ha affermato in una intervista che : “Una lezione importante dell’aids è che per ottenere una risposta efficace bisogna affrontare la questione dello stigma già all’inizio di una pandemia, se le persone hanno paura dei pregiudizi esiteranno a sottoporsi ai test, a rivelare la presenza di sintomi e a chiedere assistenza”. ( fonte Internazionale)
Credo questo sia un buon insegnamento anche per la pandemia da COVID dove oltre a debellare il virus stiamo cercando di far “morire psicologicamnete” anche il malato di COVID.
Cosa fare quindi?
Per quanto riguarda i bambini, bisogna cercare di spiegare che il compagno/a che ha contratto la malattia si comporterà come se avesse preso qualsiasi altro malanno (mal di pancia, stomatite, febbre etc) ovvero starà a casa per un po’ di tempo per poi tornare a giocare e studiare con gli altri come prima, ovvero il compito del genitore è normalizzare ciò che è accaduto per evitare che anche il COVID possa essere usato dai bulli/ bulle come segno di diversità, finendo per emarginare i bambini.
Se uno dei nostri figli ha avuto atteggiamenti da bullo/bulla con un proprio compagno, cercando di prenderlo in giro o stigmatizzarlo o emarginarlo, prendersi del tempo e chiedergli il motivo che lo ha spinto a tale comportamento.Occorre capire se pensava che fosse corretto comportarsi così, e poi fare un gioco di “ruolo” dove lo si invita a immedesimarsi nella situazione che vive il proprio compagno dicendogli “ora facciamo finta che tu sia il tuo amico che ha il padre positivo e che arrivi a scuola e nessuno vuole starti vicino. Cosa proveresti? Quali emozioni? Come ti sentiresti? Cose vorresti che facessero i tuoi amici?”
Per quanto riguarda il nostro piccolo, è necessario cercare di informarsi anche sulle storie a lieto fine delle persone sono guarite ed ora stanno bene, per arginare la paura ed il terrore che ci inducono ad avere comportamenti non controllati.
Un buon comportamento è quello di essere solidali con chi ha contratto la malattia e cercare di essere disponibili ( anche solo telefonicamente). E’ bene ricordarsi che la persona ha contratto una malattia e non è la malattia stessa.
Infine è utile tenere sempre a mente il concetto che “gli altri siamo noi” e quindi potrebbe accadere a nostro marito, figlio o nipote di essere additato come untore. In questo caso come ci sentiremmo?